Anna Banti

Anna Banti: pseudonimo scelto in ricordo di un’elegante nobildonna, sua parente all’anagrafe, Lucia Lopresti, nacque a Firenze nel 1895 da padre calabrese e da madre toscana.Visse un’infanzia agiata nella capitale dove conseguì la maturità classica al famoso liceo Visconti; qui conobbe il suo futuro sposo, Roberto Longhi, all’epoca suo insegnante di storia dell’arte che spiccava per anticonformismo e polemica. La sua vita fu segnata  dall’arte tanto che incoraggiata, da sempre, dal padre negli studi umanistici scelse l’indirizzo universitario di storia dell’arte e finì per discutere una tesi sull’arte seicentesca con relatore Adolfo Venturi. Nonostante il suo amore per la critica d’arte decise di dedicarsi alla stesura di saggi e romanzi  spiegando così le sue ragioni :“L’abbandonai quando capii che avrei fatto della critica d’arte di secondo piano. Avevo sposato Roberto Longhi e non potevo permettermelo.Volevo essere io,autonoma”. Il rapporto col Longhi fu sempre di affetto e ammirazione; era solita chiamarlo il “Maestro” e guardare con sospetto e circospezione le tante alunne e ammiratrici che gli rivolgevano la parola. Alla morte del marito presa da disperazione si rinchiuse in un armadio e battendo il capo sul muro si provocò il distacco della retina. Le due figure, marito e moglie, riuscirono a guadagnare un enorme successo in campi diversi senza mai prevaricarsi; anche se, Bernard Berenson, amico del critico Roberto Longhi, chiedeva che effetto facesse essere sposati con un genio come Anna. La scrittrice della fama affermò: “E’ difficile discriminare se più nuoccia alla fama di un’artista essere dimenticato che mal conosciuto: e vien voglia di decidere che se un grande spirito potesse scegliere preferirebbe il silenzio alle mezze parole”. Con gli autori italiani dell’epoca era in stretti rapporti con la Bellonci che era solita soprannominare “L’aquila a due tette”,Bigiaretti,Aldo Palazzeschi,Vitaliano Brancati,Corrado Alvaro,Elio Vittorini; anche loro appartenenti alla scuderia Mondadori e come lei assidui frequentatori del salotto letterario della De Cespedes. Qui si dilettavano a comporre versi vestiti da contadinelli o scolari. Detestava invece Eugenio Montale che dipingeva come un serpente per aver esclamato ”Ninguna!” interrogato su quali fossero le intellettuali che si distinguevano nel panorama letterario italiano. La sua sensibilità per il tema femminile si rispecchia anche nel racconto “Artemisia” del 1943; anno in cui i tedeschi, nella notte tra il 3 e il 4 agosto, in fuga, fanno saltare le strade dell’Oltrarno. Sotto le macerie di un appartamento bruciano i manoscritti “Artemisia” e “Il bastardo”: la scrittrice impiegherà l’intero dopoguerra a riscriverli “come ragazzi rubati alla morte”. La Banti fa confluire nel suo racconto le competenze storico-artistiche e letterarie alternando la raffigurazione pittorica alla creazione letteraria e applicando una riscoperta della storia. “Artemisia” è la storia di una pittrice, figlia di un caravaggesco, che visse in italia e alla corte d’Inghilterra. Attraverso la sua professione e gli affetti si riscatta da soprusi e oppressione: fu violentata da un suo collega pittore. Diceva della sua passione per l’arte: “Dio non mi ha dato figli,ma solo Caravaggi”; considerata anche una dichirazione di poetica e di indipendenza personale. La scrittrice si spense la sera del 2 settembre 1985 a Ronchi di Massa. Poco prima di mettersi a tavola la domestica tentò di tranquillizzarla e prima di spirare pronunciò queste ultime parole:”Io muoio e tu mangi”. Fu volitiva e indipendente fino all’ultimo respiro. Una donna che dedicò la vita a descrivere e affrescare vite di donne denunciandone le condizioni subalterne e aprendo la strada a tante altre scrittrici vissute fino a quel momento all’ombra dei colleghi maschi.